LA DIMENSIONE ORIGINARIA DELL'UOMO




LA NATURA DEL DOMINIO


1.  La politica come scienza  

La Prima Mente, constatandone le necessità, non essendo nessuno capace da solo di difendere la vita dai pericoli esterni ed interni né di perpetuare la specie, congiunse gli uomini quasi in un unico corpo, nel quale alcuni fossero da guida, altri fossero guidati, altri coltivassero il sapere, altri si impegnassero nell’agire per il bene comune, e, con innumerevoli doveri reciproci, a causa delle innumerevoli esigenze, si aiutassero in una vita ordinata al fine per il quale Dio Signore dei signori creò l’uomo[142]. 

Il De politica[143] si apre con questo aforisma di mirabile densità concettuale, nel quale Campanella traccia le coordinate fondamentali della sua visione politica. Dio è la causa prima, l’artefice dell’unione degli uomini in un «unico corpo», frutto di una «necessità», che attribuisce all’azione divina un carattere razionale. A rendere necessaria questa congiunzione è l’imperfezione stessa dell’uomo, inabile ad auto-conservarsi in una concezione auto-referenziale, «eremitica», della vita umana, che si tratti di difenderla dai pericoli o di permetterne la riproduzione. Oltre ad indicarci l’origine naturale della socialità umana in un’ottica trascendente, lo Stilese ci mostra un Dio che vuole guidare gli uomini, fornirli dei mezzi necessari per fronteggiare la propria incompletezza, infondendo in ognuno di essi inclinazioni naturali proiettate verso il «bene comune». L’unione degli uomini è concepita, in una prospettiva ontologica universale, come la creazione di un’unica grande comunità politica, teocratica e pacifica, finalizzata alla conservazione di quanto creato secondo ragione. Nell’aforisma citato sono delineati i tratti essenziali di quella comunità originaria, nella cui proiezione futura sarà indirizzata, nell’eterogeneità delle sue incarnazioni, la dottrina comunitaria campanelliana. 
La politica, in una visione così strutturata, assume chiaramente un ruolo subalterno alla religione e il potere umano una natura derivante, relativa e già finalizzata al momento della sua attribuzione dal  «Signore dei signori», che come tale è il solo ad avere un potere assoluto. Nel quadro delle relazioni pubbliche, brevemente abbozzato, il potere politico ha invece i suoi limiti nella reciprocità dei doveri che accomuna ogni funzione all’interno della gerarchia sociale, nella sua finalizzazione al bene pubblico e nel ruolo necessario attribuito ad ogni componente comunitaria. La gerarchia quindi sorregge e garantisce l’uguaglianza rispetto al bene comune, come fosse un «unico corpo» per l’appunto, che oltre ad indicare un’unità naturale assume così anche la valenza di unità morale, nella quale ogni parte, nell’ aiutarsi reciproco «in una vita ordinata al fine per il quale Dio Signore dei signori creò l’uomo», ha una propria consistenza esistenziale. 
La naturale dimensione comunitaria dell’uomo è il frutto di un dono, che qui entra in gioco tra due estremi: la perfezione di Dio e l’imperfezione umana. Ciò che meglio ne sintetizza il distacco è sicuramente il carattere perituro insito nella seconda, e il dono gratuito della comunità è lo strumento che da la possibilità all’uomo di «eternarsi». Deve porsi però in una posizione ricettiva e reattiva, cogliere il proprio compito, il proprio posto nel «mondo», prendere coscienza dell’Amore di Dio e del fatto «ch’intra il suo ventre abbiam vita e ricetto»[144], e benché le comunità politiche abbiano come fine l’uomo, l’unione che le definisce «non si realizza se non dalla Prima Unità»[145], che né è principio e fine. 
Molti degli aspetti fin qui delineati possono essere rintracciati nella ricostruzione etimologica del termine «communitas», offerta recentemente da Roberto Esposito[146], che ha cercato di evidenziare l’ambiguità di fondo che ha accompagnato il concetto di comunità nel corso della sua storia. Andando oltre la contrapposizione pubblico/privato, Esposito ha cercato in munus le origine del termine communis, per scoprire quale fosse l’essenza originaria dell’oggetto condiviso e ha rilevato una complessità semantica che ne fa oscillare il significato tra il concetto di ‘dovere’ e quello di ‘dono’, ovvero tra onus, officium e donummunus «è il dono che si da perché si deve dare e non si può non dare»[147]. Benché il dono sia generato da un beneficio precedentemente ricevuto, l’accento cade solo sul munus che si dà e che accomuna i partecipanti di una comunità. Prende la forma di un pegno obbligatorio, che lo distingue dal donum e che sembra escludere la stabilità di un possesso, indicando piuttosto un ‘mettersi a disposizione’, una cessione di qualcosa che non si può più tenere per sé e attraverso la quale si manifesta la propria ‘grazia’ verso un dono ricevuto. Se il più antico senso attestato di communis ci indica la ‘condivisione di un incarico’, ne risulta che ciò che realmente unisce le persone di una communitas è un limite che si configura come un dovere, l’assunzione di un impegno, che è la manifestazione necessaria di un «contro-dono». Questo passaggio ci introduce alla coppia oppositiva che è il vero centro dell’opera di Esposito, ovvero il contrasto tra immunitas e communitas: “mentre la  communitas è vincolata al sacrificio della compensatio, l’immunitas implica il beneficio della dispensatio[148]. La comunità non è un’attribuzione che si aggiunge ad ogni soggetto che la compone, una seconda soggettività, che arricchisce ed estende la prima, ma è  esattamente il contrario, una sottrazione che rende i soggetti che ne fanno parte non più interamente padroni di se stessi, della loro «proprietà più propria»: la soggettività. Ciò che caratterizza il comune è piuttosto l’‘altro’, l’improprio, i soggetti non trovano nella comunità un principio di identificazione ma quella estraneità che li costituisce mancanti a se stessi: ‘donanti a’, in quanto essi stessi ‘donati da’ un circuito di donazione reciproca che trova la propria peculiarità nella sua obliquità rispetto alla frontalità del rapporto soggetto-oggetto. Di base c’è un sacrificio del ‘proprio’ per il ‘comune’ e non una trasformazione del ‘comune’ in un ‘proprio’ da aggiungere al ‘proprio’ già esistente. Ed è qui che entra in gioco l’ambiguità originaria del concetto di ‘comunità’: la comunità è nello stesso tempo «l’unica dimensione dell’animale ‘uomo’», ma anche la sua deriva potenzialmente dissolutiva»[149]. La comunità si caratterizza ontologicamente come qualcosa di cui non possiamo liberarci, perché ci anticipa sempre, come nostro stesso momento originario, nella cui irraggiungibilità la nostra soggettività sembra smarrirsi. Questo è il niente in cui Esposito, in ultima analisi, identifica «il nostro fondo comune», è «la lacuna da cui proveniamo»[150], ‘dono’ originario che ci accomuna nella nostra finitezza. Che la questione della natura mortale dell’uomo si intrecci profondamente al concetto di comunità, al suo momento fondante in primis, è stato evidenziato anche dalla riflessione filosofica tradizionale, e lo stesso Campanella ha individuato nella comunità uno strumento necessario alla sopravivenza, prima terrena e poi ultraterrena, dell’umanità. Ma come sottolinea lo stesso Esposito è nella modernità che «quello che era considerato un dato assume carattere di problema»[151]. Da questo punto di vista lo Stilese è sicuramente fuori dalla modernità, la problematicità insita nel concetto di comunità gli è estranea e sembra quasi essere riassorbita in quella «necessità» che, nella sua visione, caratterizza l’azione divina e nella concezione della natura che né è il riflesso. Per quanto i risultati dell’indagine riportata muovano in un’altra direzione, si può osservare come le implicazioni semantiche legate alle origini del termine munus riflettano alcuni temi essenziali, legati, più o meno implicitamente, all’accezione campanelliana di ‘comunità’: la socialità come dimensione originaria dell’uomo, quindi non come sua attribuzione aggiuntiva, la relazione tra la comunità e la conservazione della specie, e l’intrecciarsi di oneri prestabiliti ad una interpretazione della comunità come dono, con la conseguenti problematiche legate alla proprietà. L’eternità, che nel De politica ‘giustifica’ la dimensione comunitaria degli uomini, ha evidentemente un prezzo, che per la modernità non sarà naturale come sembra essere per Campanella: nessun uomo domina su se stesso. 



Note
[Fig. 2] Dipinto a olio su tela (cm. 68 x 62), eseguito con ogni probabilità a Parigi nella seconda metà degli anni trenta del Seicento da un pittore non ancora identificato, presumibilmente della cerchia di Philippe de Champaigne. – Beauvais, Musée Départemental de l’Oise. (Vedi Fig 1/e in Eugenio Canone, IL VOLTO DI TOMMASO CAMPANELLA, Dipinti e incisioni).
[142] Politica (De), a cura di A.Cesaro, Alfredo Guida Editore, Napoli 2001, I, 1, p. 43 (i corsivi sono miei).
[143] Negli Aforismi politici un passo analogo a quello citato, che troviamo a partire dall’edizione francofortese, è assente. Le prime stesure in italiano cominciano con un aforisma affine al secondo ( I, 2) del De politica.
[144] Del mondo e sue parti, in Le poesie, ed. cit., n. 4, pp. 37-38.
[145] Politica (De), ed.cit., I, 2, p. 43.
[146] Cfr. “Niente in comune”, in R.Esposito, Communitas, Giulio Einaudi editore, Torino 1998, pp. IX-XXXII.
[147] Per una ricostruzione dettagliata dei passaggi semantici che portano R.Esposito ad interpretare il munus come ‘dono obbligatorio’ cfr. Ivi, p. XIII-XIV.
[148] Ivi, p. XVI
[149] Ivi, p. XVIII
[150] Ivi, p. XIX
[151] Ibid.




Tesi di laurea di Michele Nucciotti
Relatore Prof.ssa Germana Ernst
Correlatore Prof. Giacomo Marramao


ANNO ACCADEMICO 2005/2006


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