LA POLITICA COME SCIENZA

[Fig. 1] 



Nella produzione politica campanelliana, eterogenea e allo stesso tempo unitaria, gli Aforismi politici assumono, grazie alla loro natura sistematica, un ruolo centrale. A distinguerli dagli altri testi, genericamente configurabili come trattazioni specifiche su argomentazioni circoscritte, è la loro emancipazione da riferimenti particolari alla realtà storica, qui ridotta ad esemplificazioni strumentali, che ci autorizza a considerarli, conformemente all’intenzione del loro autore, un’esposizione organica della scienza politica dello Stilese. 
Se nelle altre opere il richiamo all’universalità di un principio politico è finalizzato alla comprensione di un problema specifico, qui l’appello alle contingenze storiche serve a testimoniare la validità del principio stesso. Come ha sottolineato Rodolfo De Mattei[1], negli Aforismi non vengono espressi concetti che non siano già disseminati nelle altre opere campanelliane, alle quali l’autore fa infatti costantemente riferimento, ma la possibilità di vederli susseguirsi secondo un ordine consequenziale ne fa uno strumento prezioso per una identificazione complessiva della sua dottrina politica.
Il contenuto degli Aforismi politici, composti verosimilmente negli ultimi mesi del 1601, si è accresciuto, a dimostrazione dell’importanza attribuitagli dallo stesso Campanella, attraverso una lunga serie di revisioni, conclusasi soltanto nel 1637 con l’edizione parigina della Philosophia realis, in cui il testo, integrato con oltre 90 aforismi e suddiviso in 15 capitoli, è inserito con il titolo definitivo di De politica. Scritti prima in italiano, poi rielaborati due volte nel 1607 con l’aggiunta di postille latine, gli Aforismi vengono redatti per la prima volta in latino nel 1614, in una stesura che sarà nuovamente corretta nel 1618, per poi vedere la luce a Francoforte, a cura di Tobia Adami, nel 1623, depurata degli attacchi violenti ai luterani, sia per l’adesione del suo curatore alla Riforma, sia perché la stampa avrebbe avuto luogo in un paese protestante. Attraverso altre tre revisioni (1632, 1633-1634, 1637) e l’integrazione di due capitoli interamente nuovi, gli Aforismi hanno quindi raggiunto la loro forma definitiva, con la reintroduzione delle mutilazioni della versione francofortese, nell’edizione pubblicata a Parigi, a cura dello stesso Campanella, nel 1637. Con il nuovo titolo di De politica ed inseriti nella Philosophia realis accanto alla trattazione sistematica della Physiologia, dell’Ethica e dell’Oeconomica, gli aforismi passano così a 241, ordinatamente suddivisi in 15 capitoli, dai 150 della redazione italiana[2] .
Dei due capitoli aggiuntivi il primo espone la concezione giuridica dello Stilese (cap. II) ed il secondo propone una nuova trattazione, che si aggiunge alla precedente senza sostituirla, degli strumenti del dominio (cap. IX), ponendo l’accento, che prima era caduto sulla opportunità di fondere lingua e spada, sul ruolo primario della lingua, a testimoniare implicitamente il fermo convincimento della razionalità assoluta del Cristianesimo e della forza persuasiva del Verbo evangelico, che caratterizza la fase matura del pensiero campanelliano. 




Come abbiamo visto, Campanella ha quindi cercato di dare, a partire dalla redazione italiana degli Aforismi politici, un ordinamento sistematico ai propri principi politici, affidandogli, come testimonia il suo inserimento nell’Epilogo magno e la sua incessante revisione fino all’edizione parigina della Philosophia realis, un ruolo primario nell’economia della propria produzione politica.
E’ probabilmente in questa prospettiva, ovvero in relazione al proprio sistema e non alla storia del pensiero, che deve essere interpretata, come sottolinea Firpo[3], la frase del Syntagma in cui lo Stilese riferendosi all’opera in esame afferma:«Scripsi praeterea Aphorismos politicos, quos deinde in capitula distinxi et politicam scientiam condidi»[4]
In un passo della Dialettica il filosofo calabrese ci fornisce degli elementi utili a definire nei suoi tratti essenziali la differenziazione tra scienza e arte, permettendoci, nel nostro caso specifico, di individuare le implicazioni della natura scientifica della politica, concepita come scienza data da Dio agli uomini e non come scienza umana o autonoma arte di governo.
 La distinzione campanelliana, premesso che « Dio esiste sempre, e tutto ciò che è deriva da lui, e tutto ciò che vale a conservarci in noi stessi ha da lui il potere di conservare»[5], è basata sull’‘appartenenza’, l’oggetto ed il fine delle discipline che le contraddistinguono. La scienza è di Dio e delle cose da lui create, ovvero di tutti «gli elementi che esistono prima dell’operazione dell’intelletto umano»[6], il suo oggetto è la natura della cosa, la sua entità, ed il fine è la conoscenza. Conoscere l’entità della cosa significa conoscere la verità, la cui pienezza appartiene solo a Dio, sia in quanto esente dalle passioni che rendono fallace la conoscenza umana, sia in quanto creatore delle cose stesse. Due sono le vie attraverso le quali Dio comunica con l’uomo, rendendo possibile la conoscenza: la creazione e la rivelazione. Nella prima via incontriamo la natura:


il mondo è il libro dove il Senno Eterno
scrisse i propri concetti, e vivo tempio
dove, pingendo i gesti e ‘l proprio esempio,
di statue vive ornò l’imo e ’l superno[7].


Eterna testimone dei «concetti» di Dio, e prova vivente dei suoi «gesti», tale da innestare quella connessione tra naturalità necessità che accompagnerà gli sviluppi della riflessione dello Stilese in modo sempre più determinante, la natura è per l’uomo una possibilità di conoscenza, che sarà rafforzata e perfezionata dalla rivelazione, e una risposta alla sua esclusiva capacità di partecipazione alla divina Sapienza, le cui ragioni eterne si riflettono nel mondo e nelle Sacre Scritture, ovvero nelle sue «statue vive» e nelle sue Parole. 
Lo ‘scrivere’ della creazione e il ‘dire’ della rivelazione sono indizi della divinità naturale dell’umanità, il ‘fare’ di Dio per la conoscenza e la salvezza dell’uomo, che deve imparare attraverso l’osservazione diretta del suo «libro» e «vivo tempio», per mezzo dei sensi, da cui ha origine ogni conoscenza. I sensi ci mostrano le cose come sono, ed è proprio nelle cose che dobbiamo ricercare la verità, e anche se la visione campanelliana della conoscenza sensibile subirà delle evoluzioni significative, muovendo da un entusiasmo iniziale per un conoscere puramente sensorio verso un approccio critico alle potenzialità dei sensi, il sentire resterà la base del conoscere. 
Se la scienza, nelle sue articolazioni, si traduce in una tensione verso la Sapienza divina, con cui coincide la vera conoscenza, l’arte assume invece una dimensione specificatamente umana, ed è infatti propria di ciò che viene realizzato dalla ragione umana in seguito alle creazioni di Dio, tanto all’esterno dell’anima, come «la casa», quanto all’interno, come «il sillogismo». Il suo oggetto è l’«ente di ragione», che viene costruito in maniera tale da rispondere al fine di ogni arte, ovvero l’utilità. Utile è tutto ciò che «conserva noi in noi stessi o nelle cose prodotte da noi per nostra natura»[8], e la conservazione della propria vita è un  bene a cui tutti gli enti tendono naturalmente e che porta con sé un sentimento di piacere che, nella prospettiva del filosofo calabrese, si lega ad ogni bene conservativo. Posto che, come vedremo, la ragione umana è partecipazione di quella divina, la differenza tra scienza ed arte si riduce ulteriormente, collocando entrambe in seno all’eterna sapienza divina, causa e fine di tutte le cose. 



Note
[Fig. 1/d] Litografia (mm. 117 x 86), anonima; pubblicata in L. Amabile, Fra Tommaso Campanella, la sua congiura, i suoi processi e la sua pazzia, Napoli, Morano, 1882, 3 voll. (la litografia – impressa nello stabilimento litografico Pagnetta di Napoli – figura di contro al frontespizio del vol. I). Come indicato in calce al ritratto, il disegno si baserebbe sul dipinto di Cozza, tuttavia con un risultato infedele rispetto al modello. È da ricordare che, qualche anno dopo, lo stesso Amabile commissionò un busto in bronzo di Campanella allo scultore leccese Francesco De Matteis, il quale – basandosi sulla litografia pubblicata nel 1882 – realizzò un ritratto del tutto immaginario del filosofo (Vedi Fig 1/e in Eugenio Canone, IL VOLTO DI TOMMASO CAMPANELLA, Dipinti e incisioni).
[1] R.De Mattei, Studi Campanelliani, G.C.Sansoni Editore, Firenze 1934, p. 34.
[2] Per una ricostruzione dettagliata delle cronologia delle revisioni degli 'Aforismi politici' cfr. L.Firpo, Aforismi politici, Istituto Giuridico dell’Università, Torino 1941, pp. 13-47.
[3] L.Firpo, Aforismi politici, ed.cit., p. 12.
[4] Syntagma de libris propriis, a cura di V.Spampanato, Bestetti e Tuminetti, Milano 1927, p. 24.
[5] Poëtica, in Tutte le opere, a cura di L.Firpo, Mondadori, Milano 1954, p. 939 (la traduzione è di L.Firpo ).
[6] Dialectica, in Philosophia rationalis, apud I. Dubray, Parisiis 1638, I, 1 (citato da G.Ernst, Tommaso Campanella, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 199; la traduzione è di G.Ernst; dopo l’edizione secentesca citata, la Dialectica non è più stata ristampata).
[7] Modo di filosofare, in Le poesie, ed. cit., n. 6, p. 44.
[8] Poetica, in Tutte le opere, a cura di L.Firpo, ed. cit., p. 317.



Commenti

Post più popolari